Quando si pensa ad Alfa Romeo, in genere, la mente non corre verso modelli piccoli ed ordinari. Nell’immaginario collettivo, infatti, il marchio milanese si lega a vetture sportive e prestigiose, capaci di fare sognare. La storia della casa automobilistica del “biscione”, però, si è concessa anche delle interpretazioni di natura diversa, che hanno allargato il target della gamma, talvolta con clamorosi passi falsi a livello gestionale e di prodotto. Questi, purtroppo, hanno inciso sulla reputazione del marchio.
Oggi non vogliamo fare una disamina delle vicende aziendali di Alfa Romeo, ma ci limitiamo a un compito (relativamente) più semplice: la redazione di una lista delle auto più piccole e pepate dell’era moderna del marchio. Se il tema vi appassiona, o quantomeno se produce in voi un minimo di interesse, continuate la lettura del post, per scoprire di quali modelli si tratta.
Alfa Romeo Arna TI
Anche questo modello, di bassissimo appeal, ebbe una versione più “muscolosa”. Si tratta della TI, acronimo di Turismo Internazionale, per connotare la sua identità più sportiva. Giunse sul mercato nel 1987 ed andò ad affiancare l’altra versione della stessa famiglia. La spinta faceva capo ad un motore a quattro cilindri boxer, da 1.3 litri, capace di erogare una potenza massima di 86 cavalli a 5000 giri al minuto, con un picco di coppia di 119 Nm a 3500 giri al minuto.
Questo si traduceva in un’accelerazione da 0 a 100 km/h in circa 11 secondi e in una velocità massima nell’ordine dei 170 km/h. Non sono cifre da pista, ma esprimono un certo vigore, per onorare meglio la tradizione del marchio. La versione vitaminizzata, però, non fu sufficiente a cambiare la reputazione dell’Alfa Romeo Arna, snobbata proprio da tutti.
A pesare come un macigno erano la linea terrificante e la commistione con la Nissan Pulsar N10, da cui discendeva quasi totalmente. Due peccati imperdonabili, che gli alfisti (infatti) non perdonarono. Le origini di questo modello del “biscione” si legano a una joint venture con la casa automobilistica giapponese. Fu, in sostanza, il frutto di un accordo che assunse presto i connotati di un vero e proprio flop, anche se l’idea delle sinergie industriali, per ottimizzare cicli e costi, non era negativa sul piano teorico, ma qui c’erano di mezzo la storia e i valori di un marchio nobile da custodire.
Auto difficile da digerire
Il debutto in società dell’Alfa Romeo Arna avvenne nel 1983, con una tempistica oltretutto sbagliata, che rese il progetto ancora meno appetibile e competitivo, oltre che più vecchio. Dal punto di vista estetico consegnò al mercato una vettura dalla bruttezza unica. Si tratta dell’auto del “biscione” con la minore personalità di sempre. Il suo ciclo produttivo fu brevissimo e giunse al suo epilogo nel 1987, quando la versione TI cercò, infruttuosamente, di risollevarne le sorti. Ormai il destino era segnato.
L’obiettivo del management, in quota IRI, era quello di guadagnare spazio nella parte bassa del segmento C, con un prezzo d’acquisto invitante. La partnership con Nissan doveva servire proprio a questo, ma l’esperimento fallì miseramente. A parte il motore e la trasmissione, provenienti dall’Alfasud, ben pochi elementi erano di matrice italiana. Il resto era Made in Japan: ottimo, per carità, ma lontano anni luce dalla tradizione e dalla capacità di emozionare di Alfa Romeo.
Il problema non era nel comportamento stradale, abbastanza gradevole, quanto nella freddezza di tutto il resto, soprattutto di quella linea scialba e di taglio orientale che nemmeno sfiorava il cuore degli alfisti (e non solo). Chi aveva un minimo di gusto non poteva che snobbare quel terribile design. All’origine, il motore dell’Arna era un quattro cilindri boxer da 1.2 litri, con 63 cavalli di potenza all’attivo, su un peso in ordine di marcia di 850 chilogrammi. Dal 1985 questa unità propulsiva guadagnò un po’ di tono, con una potenza massima cresciuta a 68 cavalli. Poi fu il turno della già citata TI, protagonista del nostro post, che non seppe invertire il trend.
Alfa Romeo 33 Quadrifoglio Verde
È la versione più spinta di questa famiglia. Il suo debutto in società risale al 1986. L’obiettivo? Intercettare la clientela dal cuore più sportivo. Non stiamo parlando, ovviamente, di un’auto da pista, ma la sua tempra era in grado di appagare quanti cercavano una berlina compatta di una certa vivacità prestazionale.
L’Alfa Romeo 33 1.5 Quadrifoglio Verde del 1986 godeva della spinta di un motore da 1490 centimetri cubi di cilindrata, in grado di sviluppare una potenza massima di 105 cavalli a 6000 giri al minuto, con una coppia di 13.6 kgm a 4000 giri al minuto, su un peso a vuoto di 840 chilogrammi. La punta velocistica si spingeva a 185 km/h, mentre l’accelerazione da 0 a 1000 metri veniva archiviata in 31.3 secondi.
Caratteristico il rumore dell’unità propulsiva a 4 cilindri contrapposti, con basamento in ghisa e testata in lega leggera. Impossibile confondere la sua voce con quella di modelli di marchi diversi da quello del “biscione”. Ad alimentarne la sete provvedevano 2 carburatori verticali doppio corpo invertiti Weber IDF o Dell’Orto DRL. L’azione frenante era affidata a una coppia di dischi all’anteriore e a dei tamburi al posteriore.
Aggiornamenti continui
Dopo la versione iniziale, l’Alfa Romeo 33 fu proposta con una prima serie restyling (1986-90), solo leggermente ritoccata nell’estetica. Interventi di microchirurgia, che si distinguevano per pochi dettagli. Ben più sostanziose le modifiche introdotte con la seconda serie (1989-95), il cui look sposò alcuni elementi stilistici lanciati dalla 164. In quest’ultima declinazione, la vettura concesse al pubblico la sua versione più sportiva: la Quadrifoglio Verde S, declinata anche in versione a trazione integrale (Permanent 4).
Qui la spinta giungeva da un motore da 1.7 litri a 16 valvole, con 132 cavalli di potenza, per una velocità massima, nella due ruote motrici, di 208 km/h. L’accelerazione da 0 a 100 km/h veniva liquidata in 8.2 secondi, il chilometro con partenza da fermo era archiviato in 29.2 secondi. Ricordiamo che l’Alfa 33 deve il suo nome alla 33 Stradale. Una scelta ardita, che proietta la mente verso auto storiche di ben altro lignaggio. Forse, nel management, mancò il senso della misura, ma la decisione non dispiacque al grande pubblico.
La produzione di questa berlina compatta prese forma a partire dal 1983. Il mercato premiò il modello, con volumi di grande rilievo. Anche se la meccanica non mutava troppo rispetto alla precedente Alfasud, a vestirla ci pensava una carrozzeria di taglio completamente diverso, che incontrò il gradimento del pubblico, coi suoi tratti squadrati e geometrici, orientati alle mode del tempo. Questi conferivano al modello una identità espressiva davvero inconfondibile. Il merito fu di Ermanno Cressoni.
L’innesto del terzo volume, appena accennato nel profilo laterale, è l’elemento più identificativo del suo design. In totale il modello prese forma in quasi un milione di esemplari: numeri da capogiro per Alfa Romeo, che non era abituata a cifre del genere. Tanto lavoro, quindi, per lo stabilimento di Pomigliano d’Arco, in cui avveniva la sua costruzione. La versione base era spinta da un motore boxer da 1.3 litri di cilindrata, con 79 cavalli di potenza massima, per una punta velocistica di 167 km/h.
Alfa Romeo MiTo Quadrifofoglio Verde
Per un certo periodo la versione pepata di questa vettura del “biscione” è stata quella spinta dal motore da 1.4 litri turbo benzina, con 155 cavalli all’attivo. Si tratta dello stesso cuore dell’Abarth Grande Punto. Come questo si giova della funzione overboost, per scariche di adrenalina ancora più intense.
Dal novembre 2009, il primato prestazionale è passato alla versione Quadrifoglio Verde, alimentata da un quattro cilindri in linea a benzina da 1368 centimetri cubi di cilindrata, dotato di sovralimentazione. Si tratta dell’unità da 1.4 litri turbo benzina MultiAir, in grado di sprigionare una potenza massima di 170 cavalli e una coppia di 250 Nm, per un’accelerazione da 0 a 100 km/h in 7.3 secondi e una velocità massima di 219 km/h. Cifre davvero notevoli per un’auto di così piccolo taglio dimensionale.
Qui l’energia del “biscione” c’è tutta, anche se le melodie meccaniche non sono le migliori del marchio. Del resto, avere il sound di un bel V6 sarebbe stato forse troppo. L’Alfa Romeo MiTo Quadrifoglio Verde, proprio in virtù del suo temperamento frizzante, fu fornita dalla Fiat a molti concessionari Maserati, per metterla a disposizione dei clienti del “tridente”, come auto di cortesia. A differenziarla dalla normale vettura in listino ci pensava la veste cromatica della carrozzeria, nel Blu Oceano della casa automobilistica modenese. Gli interni erano in pelle Frau, le sospensioni anteriori a controllo elettronico. Altri elementi concorrevano al fascino specifico di questo allestimento, non disponibile sul mercato per la clientela. L’Alfa Romeo MiTo Quadrifoglio Verde trovò impiego anche come Safety Car nel campionato Superbike 2013, dando vita ad una versione stradale celebrativa della connessione.
MiTo sperimentale
Ancora più spinta la versione GTA, che però rimase una concept car. Questa godeva della spinta di un quattro cilindri in linea da 240 cavalli di potenza: un missile, rimasto allo stato concettuale. Meglio così, forse, perché un’auto del genere poteva diventare pericolosa. Anche se la MiTo ha un comportamento stradale sano, con un telaio all’altezza, abusare delle sue doti, spingendosi a simili livelli non sarebbe stato molto saggio.
Ricordiamo che l’Alfa Romeo MiTo ha preso forma dal 2008 al 2018. Poi il suo ciclo produttivo si chiuse. In totale il modello prese forma in oltre 293 mila esemplari, presso lo stabilimento Fiat Mirafiori. Il merito del suo look accattivante va a Juan Manuel Diaz, che lo ha sviluppato per il Centro Stile Alfa Romeo. Questa vettura di segmento B ha un’immagine fresca e giovanile. Non ci vuole molto a capire quale fosse il suo target commerciale. Si tratta dell’unica utilitaria prodotta dalla casa del “biscione” nel corso della sua storia.
Nell’allestimento Quadrifoglio Verde regalava una tempra prestazionale di notevole rilievo, abbinato a un quadro emotivo degno delle aspettative, almeno con riferimento allo specifico segmento di mercato. Il look era all’altezza, per la sportività del muso, i gruppi ottici posteriori rotondi, la fiancata da coupé compatta. Tutti elementi che hanno concorso alla sua matrice fortemente identitaria. La MiTo è un’auto inconfondibile. Ciò che rende ancora più apprezzabile questo fatto è stata la capacità di Diaz di tirare fuori un simile carattere da una vettura dimensionalmente piccola.