Jim Farley, CEO di Ford, deve aver meditato a lungo prima di decidere definitivamente di “buttare” migliaia di ore di lavoro. Non è un dramma esistenziale, certo, ma una pesantissima questione di portafoglio. Ford ha appena annunciato una svalutazione mostruosa di 19,5 miliardi di dollari sulle attività legate ai veicoli elettrici.
Dopo aver perso circa 13 miliardi di dollari dal 2023, Farley ha capito che la sopravvivenza non sta nel rincorrere sogni a zero emissioni (e zero guadagni), ma nel tagliare i rami secchi: “Per quanto amassi quei prodotti, i clienti negli Stati Uniti non li avrebbero pagati”. Finisce così la storia.

Il mercato americano è diventato un terreno ostile per l’elettrico puro da quando le politiche del presidente Donald Trump hanno cancellato il credito d’imposta di 7.500 dollari. Se in Cina gli elettrici e gli ibridi plug-in sono al 50% delle vendite, negli States sono crollati a un misero 5%. Un ritiro strategico che manda in soffitta ogni pretesa rivoluzionaria. Produrre la stessa auto, quella one Ford della vecchia filosofia, per tutto il mondo è ormai impossibile.
Oggi Farley ha bisogno di “molte Ford” e di alleanze. Ha già stretto un accordo con Renault per auto elettriche accessibili in Europa e sta cercando un partner cinese per le piattaforme tecnologiche. Nel frattempo, la bandiera dell’innovazione resta affidata a un team skunkworks in California, che entro il 2027 dovrà sfornare un pick-up elettrico da 30.000 dollari (molto competitivo) capace di sfidare Tesla e BYD.

Mentre un altro gigante come General Motors riorganizza le fabbriche per vetture elettriche per produrre auto a benzina, Toyota si gode il momento: gli ibridi rappresentano metà delle sue vendite americane. Così, in questo contesto, anche Ford si adegua, promettendo che entro il 2030 metà del volume globale sarà elettrificato, ma con una massiccia dose di ibridi e modelli ad autonomia estesa.
