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Alfa Romeo P3: un mito eterno del “biscione”

Questa vettura è un segno tangibile del glorioso passato della casa milanese.

Alfa Romeo P3
Foto Stellantis Heritage

L’Alfa Romeo P3 è un’icona del marchio del “biscione”. Questa pietra miliare dell’automobilismo italiano dominò la scena agonistica nei primi anni trenta, vincendo tutto ciò che si poteva vincere. Un risultato non dovuto al caso. La lunga scia di successi fu infatti il frutto di un progetto riuscito su tutti i fronti.

Oggi torniamo sul tema per celebrare il trionfo di Antonio Brivio alla Targa Florio del 1935, su un esemplare della specie. Il pilota biellese si impose nella sfida siciliana, in modo autorevole, con la versione da 2.9 litri di cilindrata. Alle sue spalle una vettura della stessa famiglia, da 3.2 litri, gestita tra le curve madonite da Louis Chiron, che giunse secondo al traguardo di Floriopoli, con un ritardo di quasi 7 minuti dal leader.

Brivio ottenne anche il giro più veloce, con il tempo di 53’59″3, alla media di circa 80 km/h, sui 72 chilometri del circuito isolano. Una vera prova di forza per la casa automobilistica milanese, che seppe respingere facilmente le ambizioni della Maserati, costretta ad accontentarsi del terzo gradino del podio, con la piccola 4 CM 1500 da 1.5 litri, affidata a Ferdinando Barbieri.

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L’Alfa Romeo P3, nata come Tipo B, fu l’evoluzione della Tipo A, che si era messa in luce sui sentieri agonistici con assi del calibro di Nuvolari a Campari. Il progetto del modello fu affidato a Vittorio Jano, quando le lancette del tempo segnavano la fine del 1931. Notevole la complessità della sfida, che il geniale progettista piemontese seppe vincere, dando vita a una vettura imbattibile.

Per la spinta fu scelto un motore a 8 cilindri in linea, costituito da due blocchi con teste fisse in lega d’allumino, ciascuno col suo albero a camme in testa. Una cascata di ingranaggi collocata tra i due blocchi provvedeva al movimento di entrambi. In pratica si trattava di un “doppio 4 cilindri”. Questo cuore, inizialmente da 2.654 centimetri cubi, veniva alimentato da una coppia di carburatori. A dargli un’iniezione energetica provvedevano due compressori volumetrici coassiali tipo Roots, che garantivano una corposa sovralimentazione, per una potenza massima di 215 cavalli a 5.600 giri al minuto.

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Alfa Romeo P3
Foto Stellantis Heritage

Fra le soluzioni intelligenti, i due semiassi disposti a “V”, che partono dall’uscita del differenziale. Questi trasmettono il moto alle ruote posteriori attraverso coppie coniche di ingranaggi, dando la possibilità di collocare il sedile del pilota all’interno del loro angolo, abbassando così il baricentro della vettura.

Superfluo dire che l’Alfa Romeo P3 fu subito vincente. Già al suo esordio, avvenuto al Gran Premio d’Italia a Monza, nel 1932, si impose sulla concorrenza, con Tazio Nuvolari al volante. Fu l’avvio di una lunga scia di successi, che fecero del modello un autentico mito del “biscione”. Nel 1934, l’unità propulsiva dell’auto milanese vide crescere la cilindrata a 2.905 centimetri cubi. Anche la potenza si spinse più in alto, toccando quota 255 cavalli. Facile immaginare i riflessi sul livello prestazionale, ulteriormente tonificato dall’iniezione energetica.

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L’anno dopo la gestione tecnica del modello fu affidata alla Scuderia Ferrari, che propose un ulteriore incremento della cubatura ed altre modifiche, apportate comunque dopo la Targa Florio. La gara madonita vide trionfare la vettura da 2.9 litri, con Antonio Brivio al posto guida. Fu un successo autorevole, sulle strade della leggendaria sfida siciliana ideata da Vincenzo Florio, che diede molta luce alla casa madre.

Quando si parla dell’Alfa Romeo P3, le pulsazioni cardiache degli appassionati si spingono a mille. Stiamo parlando, infatti, di una delle opere supreme del marchio del “biscione”, quindi dell’intero comparto automobilistico. In essa si concentra un’intero capitolo di storia. Questa vettura sapeva esprimersi con grande efficacia nei vari contesti agonistici.

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Il suo incredibile palmares, costellato di successi, mostra quanto forte fosse il modello, che sapeva spegnere le velleità della concorrenza. Alla qualità sublime delle sue dinamiche concorreva l’ottimo telaio a longheroni e traverse in acciaio di cui l’auto era dotata, che garantiva un perfetto equilibrio e un’ottima maneggevolezza.