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Le 3 Alfa Romeo più brutte di sempre

La ricca storia dell’Alfa Romeo si è giovata di grandi capolavori, ma non sono mancati i disastri stilistici.

Alfa Romeo Arna

Il catalogo storico dell’Alfa Romeo è ricco di auto seducenti, entrate nel cuore di tutti. A volte il loro stile ne ha fatto dei capolavori assoluti, degni dell’Olimpo della bellezza. Non sempre, però, le cose sono andate bene sul fronte stilistico. Le note stonate, del resto, ci sono dappertutto. Il marchio milanese non fa eccezione. Oggi ho raccolto per voi alcuni dei modelli più brutti, o quantomeno discutibili, del “biscione”.

In un caso si tratta di un’auto davvero inguardabile. Poi c’è una vettura nata vecchia e priva di mordente. Infine un veicolo lontano mille miglia dalla tradizione aziendale: un fuoristrada puro (sic!). Quando si parla di Alfa Romeo è impossibile non pensare alla nobile storia sportiva del marchio, scritta in modo indelebile nell’antologia del motorsport. Lunghissimo, poi, l’elenco delle auto stradali da sogno costruite nel corso degli anni. Auto contese dai collezionisti nelle aste internazionali o che dominano la scena nei concorsi d’eleganza più prestigiosi del pianeta. Un mezzo esclusivamente pensato per l’off-road, in questo contesto, suona davvero male.

Magari i giovani di oggi, cresciuti con la moda dei SUV, non ci vedono nulla di strano in certe eresie, ma chi ha qualche anno in più ricorda che una volta Alfa Romeo era una stella brillantissima della galassia a quattro ruote. Le sue vicende storiche, per quanto offuscate, in alcune fasi recenti, dalle miopie di un management non sempre all’altezza, hanno scritto l’impalcatura di un marchio capace di far sognare gli appassionati, a tutte le latitudini del mondo, con opere legate al motorsport e alla Dolce Vita. Cose ben diverse dai fuoristrada ed anche dalle altre due auto brutte presenti nella lista.

Alfa Romeo Arna

La poco ambita pole position nella classifica delle auto del “biscione” più brutte di sempre spetta all’Alfa Romeo Arna del 1983. Questa vettura, nata da una joint venture con Nissan, si è rivelata un vero flop. Breve il ciclo produttivo, che giunse al suo epilogo nel 1987. Il claim fece subito ridere: “Arna, e sei subito Alfista”. Forse, per il basso prezzo d’acquisto, la piccola di famiglia apriva il marchio a nuove fasce di clientela, ma spacciarla come una creatura col DNA della casa milanese sembrava francamente esagerato. Quasi comico.

Era l’epoca IRI, non certo fra le più felici della sua storia. Il management puntava a creare un modello da collocare nella parte bassa del segmento C, magari con le credenziali giuste per vincere la sfida con la concorrenza. Nella sigla della vettura c’erano le sue caratteristiche principali: Arna era infatti l’acronimo di Alfa Romeo Nissan Auto. Un modo per mettere subito in risalto la joint venture.

Per contenere i costi e accelerare i tempi di produzione, si scelse di utilizzare le scocche della Pulsar N10, prodotta dalla casa giapponese. Su questa fu adottata la meccanica dell’Alfasud, opportunamente tarata sul nuovo progetto. Anche la componentistica era italiana. In pratica nel nostro paese nascevano il motore, la trasmissione e l’avantreno. Qui avveniva anche l’assemblaggio. In Giappone, invece, prendevano forma la carrozzeria, il retrotreno e quasi tutti gli interni (facevano eccezione solo il volante e il pomello del cambio).

Piccola cilindrata per il propulsore

La spinta era affidata a un cuore boxer 4 cilindri da 1.2 litri, in grado di erogare 63 cavalli di potenza massima. Poi c’era una variante sportiva, battezzata TI, disponibile nella sola versione a 3 porte, che utilizzava un propulsore da 1.3 litri di cilindrata, con 86 cavalli all’attivo. Qui la punta velocistica si spingeva oltre quota 170 km/h. Le prestazioni risultavano di buon profilo, come il comportamento stradale, ma l’estetica era un vero disastro.

I lineamenti si offrivano allo sguardo con un taglio orientale; poco avevano a che spartire con la tradizione italiana. Gli uomini del “biscione” cercarono di sviluppare un certo family feeling, ma era impossibile ottenere dei risultati di qualità partendo da una base di lavoro così vincolante. Molti inseriscono l’Alfa Romeo Arna nella lista delle auto più brutte di sempre. In realtà c’è chi ha fatto peggio di lei, ma è indubbio che il suo stile sia improntato ad una tristezza ammorbante. Questo ha inciso in modo significativo sull’accoglienza, decisamente fredda, del pubblico, che non l’ha mai apprezzata. Oggi anche il mondo del collezionismo la guarda con distacco.

A pesare sull’insuccesso commerciale dell’Alfa Romeo Arna si aggiunse la contemporanea presenza in listino della più accattivante 33, che aveva un maggior numero di frecce al suo arco per entrare nel cuore degli appassionati del marchio. Ciò si tradusse in un ulteriore travaso di interesse, che pesò ancor di più sul destino dell’altra. Anche in condizioni normali, però, l’Arna non avrebbe inondato di prenotazioni i rivenditori del marchio, specie in ragione del suo look, incapace di trasmettere un livello seppur minimo di vibrazioni emotive. Un passo falso della casa del “biscione”, che però fece scuola sul fronte delle joint venture automobilistiche, tracciando un sentiero poi percorso da molti altri.

Alfa Romeo Alfa 6

Nella singolare classifica che abbiamo stilato oggi ho inserito anche l’Alfa Romeo Alfa 6, che non è un’auto propriamente brutta. I suoi difetti? L’essere nata con un look già vecchio e la sua connessione con codici stilistici non sensuali come su altre opere del “biscione”. Questa vettura fu prodotta dal 1979 al 1987, quando lasciò spazio alla sua erede, l’Alfa Romeo 164, un’auto di un altro pianeta e ben più seducente.

In totale prese forma in poco più di 12 mila esemplari, a riprova di un’accoglienza di mercato particolarmente fredda. Lo stile di Bertone non era malvagio, però accusava il peso degli anni. Il fatto è che questa berlina di fascia medio-alta venne immessa sul listino con almeno un lustro di ritardo sul programma iniziale, per la crisi petrolifera di quel periodo. Facile intuire come ciò ebbe l’effetto di un macigno sull’attualità stilistica della proposta.

Ad aggravare il quadro ci pensò il taglio estetico molto tradizionale del modello, che non esprimeva note di particolare modernità, neppure al momento in cui il progetto fu completato. Mancava inoltre una connessione con il lessico sportivo del marchio. Per farla breve, l’Alfa Romeo Alfa 6 sembrava un’auto ingessata e pesante nel look, che non interpretava bene il dinamismo del “biscione”. Si può parlare, senza timore di smentita, di un’auto nata già vecchia. Ecco perché non ottenne i numeri produttivi auspicati.

Il modello non era solo carente sul piano della grazia stilistica, ma accusava dei limiti anche sul fronte dell’abitabilità, specie in relazione alle dimensioni esterne. La concorrenza faceva meglio. Inevitabile un destino infelice, a dispetto della lunga permanenza sul mercato, imposta da ragioni tecniche più che da una calorosa accoglienza da parte della clientela.

Cuore degno della tradizione

Per questa ammiraglia fu scelto inizialmente il motore V6 Busso da 2492 centimetri cubi di cilindrata, con potenza massima di 158 cavalli, abbinato a un cambio manuale a cinque rapporti. A richiesta era disponibile un cambio automatico ZF a tre rapporti. La vettura portò al suo esordio lo sterzo servoassistito. Il cuore era dissetato da sei carburatori monocorpo Dell’Orto.

Alla fine del 1983 giunse sul mercato la seconda serie dell’Alfa Romeo Alfa 6, riconoscibile da alcuni elementi estetici frutto del restyling, ma la presa emotiva cambiava poco. Sul cuore da 2.5 litri fu adottata l’iniezione elettronica, che migliorava la fluidità di funzionamento e riduceva i consumi, senza alterare il dato della potenza massima del precedente step. A questo propulsore furono poi affiancati il V6 da 2.0 litri, pensato per il mercato interno, con 135 cavalli all’attivo, e il 2.5 Turbodiesel da 105 cavalli. Le prestazioni subivano una forte penalizzazione, allontanandosi dalle aspettative degli appassionati.

Diciamo, quindi, che l’Alfa Romeo Alfa 6 fece cilecca su molti fronti, pagando dazio sulla presa commerciale, come dimostrano i numeri produttivi poco esaltanti. Eppure le note positive non mancavano: su tutte le ottime doti dinamiche, queste sì in linea con lo spirito del “biscione”. Anche il comfort era di adeguata tempra. Notevole la robustezza del telaio. Le finiture, inoltre, superavano la media del brand, ma i pochi pregi erano soffocati dai tanti difetti del modello. Ecco le dimensioni dell’Alfa Romeo Alfa 6: 4680 mm di lunghezza, 1684 mm di larghezza, 1425 mm di altezza, 2600 mm di passo. Il peso, in base alla versione, ballava in un range da 1480 a 1580 chilogrammi. Troppi in relazione alla cavalleria.

Alfa Romeo 1900 M

L’Alfa Romeo 1900 M non può essere definita un’auto brutta, specie in relazione alla missione per cui è nata. Però c’è quel marchio disposto nel frontale che la rende lontana anni luce dai gusti degli appassionati. Quando si parla di un’opera del “biscione” si pensa a tutto tranne che ai fuoristrada. Anche i tratti stilistici non hanno elementi di comunanza, seppur minimi, con la tradizione aziendale.

Ciò spiega il suo inserimento nella lista delle auto più brutte della casa automobilistica milanese. Il paragone con le mitiche sportive e con le splendide berline Alfa Romeo dei tempi precedenti è impietoso per lei, tanto sul piano estetico quanto su quello filosofico. Nota anche come “Matta” o AR/51, questa off-road prese forma tra il 1951 e il 1953.

Abbiamo riferito in un precedente post che il suo progetto porta la firma dell’ingegnere Giuseppe Busso: un nome molto noto tra gli appassionati del “biscione” (e non solo). La sua origine si deve alla necessità di partecipare a un bando del Ministero della Difesa. Quindi si tratta di un veicolo nato a scopi militari: la M presente nella sigla sta proprio a dimostrarlo. L’Alfa Romeo 1900 M era un fuoristrada leggero, con ottime doti dinamiche nei contesti operativi più impervi.

Cuore pulsante del modello era un motore a quattro cilindri in linea da 1884 centimetri cubi, in grado di sviluppare una potenza massima di 65 cavalli a 4400 giri al minuto e una coppia massima di 12.5 Kgm a 2500 giri al minuto. Lo stesso propulsore della contemporanea 1900 berlina a quattro porte. Qui la velocità massima, però, era inferiore, non superando la soglia dei 105 km/h.

Nota stonata nella tradizione del marchio

Difficile leggere nel modello i codici genetici del marchio, anche se la sua presentazione in anteprima avvenne a Monza, in occasione del Gran Premio d’Italia di Formula 1 del 1951, con il mitico Nino Farina al volante.

Purtroppo (per il management del “biscione”) questa vettura non fu scelta dai vertici dell’esercito, che preferirono la Fiat Campagnola, più aderente al bando del Ministero della Difesa. Così ad Alfa Romeo rimase un modello venduto in pochissimi esemplari, che ha sporcato la sua line-up produttiva. Nella breve parentesi di mercato, tuttavia, la 1900 M è riuscita a guadagnare qualificati apprezzamenti per la bontà del suo sistema di trazione integrale e per la coerenza di un progetto curato al meglio nei suoi aspetti funzionali.

Notevoli le doti in fuoristrada dell’auto, ma questi aspetti producevano un interesse pari a zero negli alfisti. Anzi, erano pure fastidiosi per loro, perché tradivano lo spirito sportivo del marchio, legato al mondo delle corse e alla Dolce Vita. Queste le dimensioni dell’Alfa Romeo 1900 M: 3520 mm di lunghezza, 1570 mm di larghezza, 1820 mm di altezza e 2200 mm di passo.

La massa, a vuoto, era di 1250 chilogrammi, a dispetto della carrozzeria in acciaio. Per la produzione di questo fuoristrada leggero del “biscione”, i vertici della casa automobilistica milanese scelsero gli stabilimenti del Portello e di Pomigliano d’Arco. Nel primo presero forma i motori, nel secondo nacquero il telaio e la carrozzeria. Sempre in Campania avveniva l’assemblaggio finale dell’auto.

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