In un momento in cui si sta “combattendo” tra dazi e regolamenti qui in Europa, il mercato auto cinese ha smesso di essere un “concorrente tra tanti” per diventare il buco nero che riscrive le leggi dell’industria internazionale. La valutazione dell’Occidente è, per così dire, fallata. Non abbiamo ancora interiorizzato che la Cina non sta solo guidando la classifica, ma determina ormai le curve dei costi globali.
Nel 2024, su un totale di 89 milioni di veicoli leggeri venduti nel mondo, la Cina ne ha piazzati 31 milioni. Per capirci, ha venduto più veicoli degli Stati Uniti (16 milioni) e dell’Europa (13 milioni) messi insieme. E non è un colpo di fortuna dell’ultimo minuto, ma un dominio costante ormai dal 2009.

La velocità dell’elettrificazione cinese è quasi imbarazzante per quanto è superiore alla nostra. Nel 2024, i veicoli plug-in rappresentavano il 40% delle vendite totali in Cina, superando il 50% alla fine del 2025. Con circa 13 milioni di veicoli elettrici e 1.6 milioni negli States, il volume unitario cinese permette un’economia manifatturiera che l’Occidente può solo sognare.
Il segreto è, lo sappiamo, il controllo totale della filiera. Pechino raffina oltre il 60% del litio e quasi tutta la grafite mondiale, dominando la chimica litio-ferro-fosfato (una sigla ormai familiare, LFP). Mentre i produttori occidentali pagano i pacchi batteria circa 130 dollari per kWh, in Cina il prezzo è sceso a 84 dollari per kWh. Questo si traduce in un risparmio netto di 2.700 dollari per un’auto da 60 kWh, prima ancora di accendere le luci in fabbrica.

La competizione interna cinese tra oltre 50 marchi nazionali trasforma le strade del Dragone in una scherma automobilistica: chi sopravvive è già maturo per l’esportazione. E i dati parlano chiaro, perché nel 2024 la Cina ha esportato 5,9 milioni di veicoli, superando il Giappone e diventando il primo esportatore mondiale.
Le vittime più illustri, chiaramente, i marchi giapponesi, esposti in mercati sensibili al prezzo dove l’elettrico cinese offre un costo di proprietà inferiore. L’Europa, protetta dal prestigio dei marchi premium, rischia comunque la stagnazione e la compressione dei margini, specialmente dopo che i colossi cinesi hanno acquisito brand come Volvo e MG.
Le barriere doganali possono cambiare l’etichetta sul veicolo, ma non la logica industriale. Se un produttore cinese costruisce in Thailandia o Ungheria, celle, motori e piattaforme restano un affare cinese. La protezione dall’aggressione, diciamo così, guadagna tempo, ma non regala la parità di costi. Il mondo, in pratica, sta solo cercando di capire come non farsi travolgere.
