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Stellantis, lo stabilimento di Kragujevac e il salario “multi-livello”

kragujevac stellantis

In un contesto ancora di crisi nell’industria auto europea, Stellantis sembra aver avviato un “laboratorio sociale” in Serbia, precisamente nello storico stabilimento di Kragujevac, dove oggi produce la Grande Panda elettrica e la Citroën C3. Qui, l’azienda ha messo in atto una forza lavoro multi-livello, organizzata per nazionalità e giurisdizione legale, con l’attiva collaborazione dei sindacati locali e italiani. Di che si tratta?

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Questo sistema concentra l’aggressiva strategia globale di abbassare i salari, secondo alcuni commentatori online, persino mettendo lavoratori di diverse nazionalità l’uno contro l’altro. In sostanza, si tratta di una differenza significativa tra lavoratori nello stesso stabilimento. Non una situazione adeguata al grande nome che tutela questi professionisti, appunto, il gruppo Stellantis.

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Al livello più basso della piramide ci sono i lavoratori Stellantis provenienti da Marocco, Algeria, Nepal, India e Polonia, reclutati tramite agenzie, spesso costretti a pagare una “tassa” dai 300 agli 800 dollari, afferma il World Socialist Web Site, solo per avere un lavoro. I lavoratori nepalesi, in particolare, sono il fondo della piramide, percependo appena 300 euro al mese, un salario di pura sopravvivenza, a quanto pare alloggiati in strutture adibite a ospitarli e isolati.

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Salendo troviamo i lavoratori serbi locali, la cui offerta salariale iniziale di circa 597 euro al mese (a meno che non si lavori anche i weekend) sarebbe inadeguata rispetto all’aumento del costo della vita, lasciando in sostanza la possibilità di soddisfare giusto i bisogni di base. Il tutto sembra proseguire con la minaccia onnipresente della “competitività” e della delocalizzazione.

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Al vertice ci sono circa 100 lavoratori italiani, inviati temporaneamente in Serbia dagli stabilimenti Stellantis in crisi (come Pomigliano, Melfi o Mirafiori). Questi sono assunti con i loro contratti italiani a circa 1.200 euro al mese, ma l’accordo ha una chiara triste alternativa: accettare la mobilità forzata, lontano dalle famiglie (con la possibilità di tornare a casa ogni 45 giorni), per sfuggire alla Cassa Integrazione o alla disoccupazione in Italia.

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Il paradosso amaro è che i lavoratori italiani comprendono l’ingiustizia, con uno di loro che ha dichiarato di aver provato angoscia vedendo la busta paga di un collega serbo. Ma l’apparato sindacale, tra sigle italiane e serbe, accetta implicitamente questa graduazione salariale, lamentando la sola “esportazione” di posti di lavoro italiani senza mai chiedere la parità retributiva per pari lavoro o denunciare il sistema di sfruttamento imposto ai migranti.