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3 auto italiane coraggiose degli anni ’80 che fecero scuola fra le citycar. E oggi?

Negli scorsi anni l’ardimento e lo spirito innovativo accompagnavano il Made in Italy anche nei segmenti bassi.

Fiat Panda
Foto Fiat

L’Italia è stata sempre maestra nel settore delle utilitarie. Alcune sono diventate delle vere icone di stile, come la vecchia Fiat 500, prodotta dal luglio 1957 all’agosto 1975. Non bisogna per forza lanciarsi nel passato remoto per avere contezza dell’assunto iniziale. Anche in tempi recenti questa abilità è emersa, in quello che è diventato il segmento delle city car.

Purtroppo la carica innovativa delle proposte attuali non è dirompente come, per esempio, negli anni ottanta, quando lo smalto dell’originalità brillava di più sulle auto tricolori. Ecco tre esempi luminosi della vecchia scuola, legati al decennio rampante. Oggi sarebbe possibile riproporre modelli di questo carattere? A voi la risposta. Qui ci limitiamo a un semplice ripasso, che non fa mai male.

Fiat Panda prima serie

Fiat Panda
Fiat Panda: l’auto che scrisse un nuovo paradigma (Foto Fiat)

Non è un’auto con particolari leziosità stilistiche, ma le sue forme da elettrodomestico, nate per soddisfare al meglio i bisogni produttivi e funzionali, sono entrate nel cuore della gente. Il merito è di Giorgetto Giugiaro, che ha saputo aggiungere note di genialità creativa all’opera, nonostante questa fosse stata concepita per badare al sodo. Ancora oggi, molte persone guardano alla vettura torinese con ammirazione.

Si può quasi parlare di un culto per la versione 4×4, non solo per l’estetica più avvincente, ma soprattutto per le sue doti dinamiche, nei vari contesti operativi, specie in quelli impervi. Come riferito in altre circostanze, in rete impazzano dei video che la mostrano vincente sulla neve e nell’off-road rispetto a moderni e costosissimi SUV. Anche in ragione di ciò è diventata quasi un’icona.

La versione a 2 ruote motrici ha meno appeal, ma pure lei si è ritagliata uno spazio nel cuore della gente, per la sua praticità e per i costi di acquisto e di esercizio particolarmente contenuti. Il debutto in società della Fiat Panda prima serie avvenne al Salone di Ginevra del 1980. Sono trascorsi 45 anni da quel momento, passato alla velocità della luce.

Con le sue forme squadrate e sbarazzine, questa vettura ha affollato per anni le strade italiane. In alcuni paesini montani era la dominatrice assoluta della scena automobilistica. A me la sua estetica non è mai piaciuta. Riconosco però il suo look distintivo, frutto di un bisogno molto pratico: quello di contenere al massimo i costi produttivi, che sarebbero saliti con linee più sinuose e complesse.

La specificità visiva ne ha fatto quasi un fatto di costume, radicato nel tempo in ampie fasce di popolazione. Il suo stile rigoroso ha permesso inoltre un ottimale sfruttamento dei volumi interni, rispetto alle dimensioni esterne, molto compatte. Sottoposta a un restyling di metà carriera, questa city car è rimasta in listino fino al 2003. Una longevità rara per un mezzo a quattro ruote.

All’inizio del cammino commerciale, sotto il cofano anteriore trovarono spazio un motore bicilindrico raffreddato ad aria da 652 centimetri cubi, per la versione 30, e un quattro cilindri raffreddato ad acqua da 903 centimetri cubi, per la versione 45. La potenza era quella indicata nelle sigle dei due modelli. Poi giunse il cuore da 965 centimetri cubi, con 48 cavalli, destinato alla neonata 4×4, con trazione integrale dell’azienda austriaca Steyr-Puch.

Nel 1986 prese forma una rinfrescata, con l’arrivo di due nuove unità propulsive, in sostituzione delle precedenti. Stiamo parlando dei 4 cilindri FIRE da 769 centimetri cubi (con 34 cavalli) e da 999 centimetri cubi (con 45 cavalli nella 4×2 e da 50 cavalli nella 4×4): motori rivoluzionari, di grande valore ingegneristico.

Fra le varianti speciali introdotte negli anni successivi, la più glamour fu senz’altro la 4×4 Sisley del 1987, in serie limitata. Oggi, come allora, è molto richiesta. In questa veste si presta persino allo struscio in via Montenapoleone a Milano. Nelle stagioni a seguire giunsero altri cambiamenti sulla Fiat Panda prima serie, che accompagnarono il modello al congedo, avvenuto nel mese di settembre del 2003.

Fiat Uno

Fiat Uno
Fiat Uno: l’auto che scelse Cape Canaveral (Foto Fiat)

I suoi contenuti puntavano a un target popolare, ma la Fiat Uno seppe entrare nel cuore della gente, per la leziosità del suo stile, i bassi costi di esercizio e il prezzo di acquisto contenuto, che la rendeva accessibile a molte tasche. Il merito del look, particolarmente riuscito, va ascritto anche in questo caso alla matita di Giorgetto Giugiaro, che seppe interpretare al meglio il tema a lui assegnato.

Anche in virtù dell’aspetto, la piccola utilitaria torinese, lanciata il 19 gennaio 1983, guadagnò il premio Auto dell’Anno nel 1984. Questa vettura segnò un cambio di passo, verso la modernità, che fece invecchiare di colpo le realizzazioni precedenti dello stesso marchio, nel suo segmento di mercato.

Per sottolinearlo, il lancio del modello avvenne presso la base spaziale di Cape Canaveral, negli Stati Uniti. Così nessun dubbio si palesava sulle intenzioni di offrire alla clientela un concept proiettato verso il futuro della specie, che non temeva il confronto con quanto proposto dalla concorrenza del tempo.

Per quel che mi riguarda, la prima serie fu quella più riuscita sul piano estetico, grazie al perfetto equilibrio formale, che venne meno con le versioni restyling, meno armoniche nella composizione. Oltre che esteticamente gradevole, la Fiat Uno era pure riuscita sul piano aerodinamico, segnando un Cx di 0.33. Regalava inoltre uno sfruttamento ottimale degli spazi, a riprova di quanto il suo stile non fosse un solo esercizio dialettico, ma una ottima prova di design.

Pur se meno pratica della sorella a 5 porte, quella più gradevole alla vista era la versione a 3 porte, dove l’armonia linguistica raggiungeva il suo diapason, rendendola una delle utilitarie più riuscite dell’era moderna. Inizialmente sotto il cofano anteriore trovarono accoglienza dei motori a benzina da 903, 1116 e 1301 centimetri cubi, destinati ad alimentare, rispettivamente, le danze delle versioni 45, 55 e 70. Poi fu il turno dell’unità propulsiva a gasolio da 1.3 litri, destinata alla Fiat Uno D.

Di notevole impatto la successiva sostituzione del cuore a benzina da 903 centimetri cubi con l’innovativa unità FIRE da 999 centimetri cubi, in grado di esprimere una potenza massima di 45 cavalli, in un quadro ingegneristico di primissimo livello, che ha fatto scuola. Strizzava l’occhio agli appassionati la Uno Turbo i.e., il cui motore sovralimentato da 1.301 centimetri cubi sviluppava 105 cavalli di grande ferocia, per una spinta adrenalinica, difficile da gestire in certi contesti ambientali, anche in virtù delle improvvise scariche di coppia, non proprio per tutti i manici. Qui il look fece sua un’impronta più sportiva.

Anche la versione a gasolio guadagnò la sua turbina e una maggiore cubatura, ora prossima agli 1.4 litri, per una potenza di 70 cavalli. Nel 1989 fece il suo debutto la seconda serie della Fiat Uno, meno bella della prima, per alcune forzature stilistiche, orientate al family feeling con la Tipo. Nove le motorizzazioni a benzina della gamma, affiancate da tre unità diesel. Punta di diamante fu la nuova Turbo i.e. da 1.372 centimetri cubi, con ben 116 cavalli al servizio delle performance. Nell’ottobre del 1995 il congedo di mercato dell’intera gamma.

Autobianchi Y10

Autobianchi Y10
Autobianchi Y10 Fire: l’auto che piacque ai vip in tv (Foto Lancia)

Innovativa e sfacciata, ha un look che rompe gli schemi. Al suo debutto lasciò tutti storditi, per le sue irrituali alchimie espressive. Inizialmente fu snobbata e vista con diffidenza, ma col tempo, grazie anche ad efficaci strategie pubblicitarie, seppe rompere il ghiaccio, entrando nel cuore della gente. A 40 anni dalla nascita viene ancora vista come un’utilitaria chic.

Negli effervescenti anni ottanta, vocati alla voglia di vivere, questa city car era considerata una stilosa protagonista delle strade, soprattutto di quelle urbane. Con lei si passava per persone di gusto, magari al volante della terza auto di famiglia. Anche se popolare, non veniva considerata una vettura da poveri. Miracoli del marketing. Gli spot funzionarono, grazie ai diversi vip protagonisti, con il claim: “Piace alla gente che piace”.

Svelata al Salone di Ginevra del 1985, per rimpiazzare l’ormai vecchia A112, l’Autobianchi Y10 se ne distaccava nettamente, specie sul piano estetico, oltre che su quello filosofico. L’elemento espressivo di più forte impatto era il portellone verticale in tinta nera (anche se alcune serie, come la Fila degli anni successivi, fecero ricorso a cromatismi diversi). Non tutti lo apprezzarono. Anzi, in pochi ne celebrarono la foggia, ma col tempo fu digerito dalle masse. Non sbocciò mai un vero amore: solo un adattamento per metabolizzazione.

Questo elemento estetico e costruttivo conferì, tuttavia, una forte carica di personalità alla vettura torinese, distinguendola dalle altre presenti sul mercato. Buono il Cx, pari a 0.31. Dal punto di vista stilistico, la serie più riuscita fu la prima. Nelle due a seguire, infatti, si perse una parte del carisma originario. Ecco perché ci concentriamo sulla capostipite della serie, che ebbe un successo strepitoso, una volta superata la fredda accoglienza iniziale.

Anche se la piattaforma era quella della Fiat Panda, l’Autobianchi Y10 proponeva contenuti di ben altra classe, ampiamente percepiti dal pubblico. La dotazione e le finiture gratificavano come su auto di segmento superiore, specie in alcune versioni, che facevano ampio uso di Alcantara nell’abitacolo. Ricca la dotazione, con note di lusso rare da riscontrare sulle utilitarie.

La spinta della city car torinese era affidata a un motore 4 cilindri FIRE (Fully Integrated Robotized Engine) da 999 centimetri cubi di cilindrata, in grado di esprimere una potenza massima di 45 cavalli, a 5.000 giri al minuto. Grande la sua prontezza, anche ai regimi più bassi. Sulla successiva versione Touring, orientata allo “sfarzo”, le danze erano animate da un cuore da 1.049 centimetri cubi, con 56 cavalli.

La Turbo, pensata in funzione delle prestazioni, usava la stessa unità propulsiva, ma con l’aggiunta della sovralimentazione, per una potenza massima di 85 cavalli. Così le performance divennero da piccola “belva”, anche se la gestione delle improvvise scariche di coppia non era un’arte per tutti: bisognava stare davvero molto attenti per non farsi male.

Dell’Autobianchi Y10 prima serie furono sviluppate anche le versioni LX, a metà strada tra la Fire e la Touring, e 4WD, a trazione integrale, che si prestava all’uso nei contesti ambientali più impervi, preservando l’immagine chic guadagnata nel tempo dall’utilitaria torinese. Possiamo considerarla quasi come una sorella chic della Panda 4×4.