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Le 3 Alfa Romeo più brutte degli anni ottanta

Anche i marchi nobili fanno dei passi falsi rispetto alle espressioni alte della loro storia.

Alfa Romeo Arna

Quando si parla di Alfa Romeo e si conosce fino in fondo la storia del marchio, si pensa ad auto belle ed emozionanti, che non faticano ad entrare nel cuore. La casa del “biscione”, nella sua lunga permanenza sul mercato, ha creato degli autentici capolavori, entrati nell’antologia dell’automobilismo. Modelli da red carpet, in grado di catalizzare i flash. Purtroppo non sono mancate le note stonate. Anche nelle migliori famiglie, del resto, è possibile imbattersi in esemplari di pecora nera.

Alfa Romeo ha compiuto qualche passo falso, specie negli ultimi decenni, ma noi oggi abbiamo deciso di focalizzare l’attenzione sui soli anni ottanta, scegliendo tre modelli che sul fronte stilistico lasciano molto a desiderare. In due casi possono essere definiti brutti a 360 gradi, nel terzo, e parlo della SZ, la totale mancanza di stile è il frutto della ricerca di un look estremo ed aggressivo. Girate la chiave, per iniziare insieme a noi il viaggio alla loro scoperta.

Alfa Romeo 90

L’Alfa Romeo 90 non è una di quelle auto che fanno strappare i capelli dall’emozione. Neppure riesce ad aggiungere un solo battito al ritmo normale delle pulsazioni cardiache. Si tratta di un’anonima berlina di fascia media, costruita dal 1984 al 1987, che non ha spiccato il volo nemmeno sul mercato, come testimoniano i soli 56428 esemplari prodotti.

Il modello nacque per prendere il posto dell’Alfa Romeo Alfetta e il compito di definirne lo stile fu affidato a Bertone. Una firma nobile, che però dovette fare i conti coi troppi vincoli progettuali. La fretta dei vertici aziendali nel rimpiazzare il precedente modello, costrinse e condividere molti elementi con l’auto destinata alla sostituzione. Fra questi, buona parte dei lamierati e il giro porta. Anche il telaio aveva una stretta parentela.

Così, inventarsi qualcosa di profondamente diverso ed avvincente non era impresa facile, anche per un grande marchio dello stile. Bertone fece il possibile per conferire una spiccata identità al modello, ma il risultato pagò lo scotto delle limitazioni strutturali, che impedirono di dare forma a una bella auto.

Le 3 Alfa Romeo di concezione moderna più belle

Così, nonostante gli sforzi, l’Alfa 90 può essere annoverata fra le vetture meno riuscite del “biscione”, con riferimento agli anni ottanta, periodo dove si aveva una forte inclinazione a sognare e a godersi la vita. Qualcosa, cioè, di ben diverso da quello che offriva la creatura di Arese. Le linee sobrie e squadrate della sua carrozzeria non riuscivano nemmeno vagamente a sollecitare l’apparato sensoriale, impedendo di innamorarsi del taglio stilistico conferito al modello. Il limite era ancora più avvertito dagli alfisti, notoriamente legati agli aspetti emotivi delle auto.

Fra le caratteristiche innovative, la presenza di uno spoiler retrattile sulla parte bassa del paraurti anteriore, che aumentava la deportanza. La sua uscita avveniva a velocità superiori agli 80 km/h. Sotto questa soglia, l’appendice rimaneva nel suo alloggiamento, per non turbare la scorrevolezza aerodinamica. Come dicevamo, la meccanica giungeva dall’Alfetta. Anche qui c’era un’architettura transaxle.

La spinta ruotava, inizialmente, su queste motorizzazioni: i 4 cilindri bialbero da 1779 e 1962 centimetri cubi, il V6 da 1996 centimetri cubi, il V6 Busso da 2492 centimetri cubi e il 4 cilindri turbodiesel da 2393 centimetri cubi. Ecco le rispettive potenze: 120 cavalli, 128 cavalli, 132 cavalli, 156 cavalli, 110 cavalli.

Il quadro prestazionale non era deludente, ma quella linea e quella parentela con l’Alfetta pesavano come un macigno, anche perché sul mercato erano giunte delle proposte molto più fresche. Ormai il destino del modello sembrava segnato. Dalla potenziale clientela giungevano dei segnali molto freddi, che non incoraggiavano a puntare ancora su questa vettura. Prese forma una scelta radicale: sospendere la sua produzione dopo soli 3 anni di vita. Meglio affidare i destini commerciali della casa alla 75 e alla splendida 164.

Alfa Romeo Arna

Definirla un disastro stilistico è quasi un eufemismo. Il nome racconta la nota dominante della sua storia, perché Arna è l’acronimo di Alfa Romeo Nissan Auto. Un modo per evidenziare come questa berlina di segmento C sia nata dalla collaborazione fra la casa italiana e quella giapponese. Breve il ciclo produttivo, che andò avanti dal 1983 al 1987, ma in assenza di certi vincoli, i vertici aziendali avrebbero staccato prima la spina.

Questa è, a mio avviso, la più brutta auto del “biscione” di tutti i tempi. Le sole forme della carrozzeria erano sufficienti a tenere i potenziali acquirenti lontani dalle porte delle concessionarie. Infatti fu un vero flop commerciale. Anche l’idea della joint venture, per quanto ante litteram e sana per quel segmento di mercato, non aveva le giuste connessioni filosofiche. Troppo diversi i marchi coinvolti, troppo diverso lo spirito.

Come abbiamo riferito in un’altra circostanza, il claim faceva ridere: “Arna, e sei subito Alfista”. Sembrava una pubblicità scritta da chi non aveva una cognizione, nemmeno minima, dell’essenza del “biscione”, ma forse si trattava del tentativo, goffo, del management di farla passare per ciò che non era. Questa vettura entrò in listino come la piccola di famiglia. Il prezzo era invitante e puntava a sedurre nuove fasce di clientela, ma l’operazione commerciale non andò bene a segno.

Le 3 Alfa Romeo TZ: auto sportive tubolari Zagato

L’Alfa Romeo Arna era scadente per chi aveva il marchio milanese impresso nel cuore e non aveva particolari doti di appeal nemmeno per tutti gli altri. I numeri di mercato lo testimoniano. Senza vena polemica, credo che un’auto del genere potesse prendere forma solo in epoca IRI. Dicevamo della joint venture: questa serviva a ridurre i costi e ad ottimizzare tempi e cicli di produzione, ma la scelta della scocca della Nissan Pulsar N10 diede vita a un obbrobrio genetico.

Tante le componenti giapponesi. In Italia prendevano forma solo il motore, la trasmissione e l’avantreno, ereditati dall’Alfasud. Nello stivale avveniva anche l’assemblaggio. L’energia dinamica giungeva da un cuore boxer 4 cilindri da 1.2 litri, che erogava una potenza massima di 68 cavalli a 6000 giri al minuto. Due le versioni disponibili: a 3 e 5 porte.

Nella prima veste l’Alfa Romeo Arna fu poi dotata anche di una variante sportiva, battezzata TI, la cui spinta faceva capo a un’unità propulsiva da 1.3 litri di cilindrata, con 86 cavalli all’attivo. Qui la punta velocistica si spingeva oltre quota 170 km/h. Le prestazioni risultavano di buon profilo, come il comportamento stradale, ma l’estetica era un vero disastro. Quelle linee orientali e prive di personalità non avevano nulla dello stile e del fascino della tradizione italiana. La clientela la bocciò senza appello e preferì, in casa Alfa, orientarsi sulla più accattivante 33.

Alfa Romeo SZ

Il carattere stilistico non le manca, ma la bellezza è tutta un’altra cosa. Qui non si ravvisano segnali della sua presenza. Resta la forza del suo look, che la rende unica e inconfondibile. L’Alfa Romeo SZ è stata prodotta dal 1989 al 1991. Dura e senza leziosità stilistiche, ha le note giuste per distinguersi dalla massa. Il design di questa vettura è di Zagato, la cui lettera iniziale è presente nella sigla del modello. La S sta per Sprint.

A mio avviso, la vista frontale è la parte migliore della sua carrozzeria, mentre la coda è troppo massiccia per entrare nel cuore di chi ha un minimo di senso del gusto. Va meglio nel profilo laterale, ma la linea di cintura alta e il netto dominio dei pieni sulle superfici vetrate non giova a favore della causa dell’armonia. L’impressione è di avere a che fare con un’auto pesante nel suo linguaggio espressivo. Questo, probabilmente, per darsi un tono da dura. L’aspetto è infatti da vettura pronta ad entrare nel ring.

Pare evidente che il Concorso d’Eleganza di Villa d’Este non sia il suo terreno naturale d’elezione. Del resto, un pugile in assetto da combattimento stonerebbe in mezzo a tanta gente vestita con abiti di alta classe, anche se vintage. Come per ogni auto del “biscione”, il cuore di tutto è il motore. Qui c’è la meccanica delle emozioni.

Le 3 Alfa Romeo più belle firmate da Bertone

Sull’Alfa Romeo SZ la spinta fa capo a un V6 Busso da 2959 centimetri cubi di cilindrata, con angolo di 60 gradi fra le bancate, che suona splendide melodie, piene e rotonde. La sua potenza massima è di 210 cavalli a 6200 giri al minuto, con un picco di coppia di 25 kgm a 4500 giri al minuto. Il compito dell’iniezione è affidato a un sistema Bosch Motronic ML 4.1. Questo il quadro prestazionale: accelerazione da 0 a 100 km/h in 7 secondi netti, velocità massima di 245 km/h. Non sono cifre spaventose, specie se viste col metro di oggi, ma in quel periodo storico davano la misura di una certa verve prestazionale, anche se le vere auto sportive facevano molto meglio.

Il peso in ordine di marcia, pari a 1256 chilogrammi, avrebbe richiesto un cuore più potente, ma i manager del “biscione” non considerarono la cosa. Per fortuna c’era la trazione posteriore a garantire un buon piacere di guida. A fare il resto ci pensavano le sane doti del telaio e il buon comportamento delle sospensioni, messe a punto da Giorgio Pianta. Il ridotto rollio contribuiva all’efficacia dell’handling. Solo 1036 esemplare di questo modello presero forma nel corso del suo ciclo produttivo.

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